Il diverticolo di Meckel

Avvertenza

Questa storia si basa su fatti realmente vissuti ed è di carattere autobiografico. I nomi delle persone sono stati intenzionalmente cambiati, in rispetto della salvaguardia delle identità personali. Il racconto è ambientato a Cosenza.

I.

Si dice che Johann Friedrich Meckel, anatomista tedesco vissuto a cavallo tre il ‘700 e l’800 (1781-1833) scoprì il diverticolo intestinale di cui è eponimo nel 1812, a 31 anni. Il medico–studioso era nipote del J. F. Meckel che fu celebre e celebrato ostetrico e medico di corte di Federico Guglielmo II (visse dal 1714 al 1778).
La notte dell’8 marzo 2006, per la seconda volta nella mia vita mi sembrò di essere andato davvero vicinissimo ad una reale percezione della morte: mi trovavo nella casa che già era stata di proprietà dei nonni materni, una rampa di scale più su del mio domicilio vero e proprio, e lì avevo appena finito di scaricare Quicktime, quando, papà ormai tornato giù (eravamo un po’ oltre la mezzanotte), il culmine di un mio improvviso malessere intestinale, già manifestatosi subito dopo cena con scariche diarroiche violente coniugate a un problema di emorroidi fu raggiunto,dopo che altre scariche con nuove perdite ematiche si erano susseguite con intensità crescente nel freddo bagno di sopra, con un annebbiamento improvviso e rapido della vista accompagnato da un indebolimento brusco dei sensi; una situazione terribile, mai provata prima, che mi portò per ben due volte ad accasciarmi al suolo, come in una mia personale passione, la prima all’ingresso della casa, poi in fuga barcollante verso il salone,dove si trova il computer su cui stavo lavorando,una nuova caduta proprio al cospetto del monitor, con una pesantezza tale da coinvolgere nella mia frana anche la sedia dove avevo appoggiato il giubbino.Non mi rimase altro da fare che chiudere il computer (lasciai a metà il download del trailer di Assault of Precinct 13, che stavo effettuando proprio per provare il nuovo programma), e ritirarmi in tutta fretta di sotto.
Un’esperienza simile non mi capitava dai tempi remoti dei miei febbroni bronchitici, quando, rimasto solo dopo che qualcuno malcautamente aveva chiuso la porta della camera da letto, dove giacevo in degenza, il mio così esulcerato sconforto incorniciato da uno stato febbrile giornalmente irrimediabile mi portò a esclamare “Non voglio morire” proprio al momento della riapertura della porta.

II.

Dopo l’ultima crisi di svenimento,giovedì 9 marzo, si capì senza ulteriori fraintendimenti che il male aveva preso il sopravvento sul mio organismo: e pur accasciato al suolo,con la testa quasi confitta nel bidè, mi furono sufficienti poche gocce di acqua e zucchero per tornare in me quel tanto da prendere la decisione di dover fare qualcosa. Vista l’emergenza, mia madre chiamò direttamente a casa il dottor De Macceis, che per una volta depose il suo abituale riserbo attendistico e consigliò, oltre ad una terapia d’urgenza,uno specialista suo amico attivo alla clinica del Sacro Cuore, il dottor Parenti. Sfortunatamente però alle 19.15, quando varcammo la soglia della clinica (l’attacco di diarrea si era invece verificato alle 18.50), trovammo che il medico era andato via da dieci minuti, ma in compenso c’era una dottoressa di arcigna lucidità, che visto il mio pallore, stimò con ferocia che era molto probabile che non avrei passato la notte e che prima di ripresentarmi l’indomani in clinica per richiedere una colonscopia con Parenti sarebbe stato altamente preferibile andare al Pronto Soccorso dell’ospedale per un emocromo.
Non appena mi stesi sul lettino di quella che si può definire una vera e propria anticamera clinica dell’accettazione ospedaliera, intesi immediatamente che avevo cominciato il tragitto per il ricovero: passai prima per le mani di un giovane e allampanato medico,con un’espressione spavalda che mi ricordò lì per lì un qualche cugino mai digerito,che armeggiava con le sue provette del sangue all’ombra di due grezzi portariviste, in cartone, contenenti l’uno i fogli rossi e l’altro i fogli verdi dell’INAIL; dalla sua bocca scoprii che la mia emoglobina era scesa del 7,8 in seguito alle perdite delle notti precedenti. E ancora sarebbe scesa,fino addirittura al 5,9 nel corso di quella breve ma intensa trafila,montando sempre la stessa barella, a causa dei prelievi che mi furono fatti lungo la strada: il primo proprio ad opera del giovane medico,i l secondo dalla siringa di una bionda dottoressa che mi accusò di aver aspettato proprio il giovedì sera per andare al Pronto Soccorso in modo da costringerla ad onorare tutta notte il suo turno. Fu lei la prima a farmi sentire l’ago della puntura,lei a praticarmi il primo elettrocardiogramma (tachicardia,veniva confermata la notazione stetoscopica del primo medico), e sempre lei a proporre sostanzialmente il mio ricovero. Nel corso dell’operazione di prelievo la dottoressa mi collegò anche la prima flebo della mia esperienza ospedaliera, un flacone di Emagel: con essa fui parcheggiato in un corridoio dove svettava una targa in onore dei fondatori del nosocomio cosentino, tra i quali il podestà Tommaso Arnoni, in attesa di fare la rettoscopia, la mia prima visita ospedaliera “in studio”; un nuovo parcheggio in una stanzetta già occupata da tre anziane signore in barella preluse al ricovero vero e proprio,inaugurato immantinente da una visita già piuttosto importante, la gastroscopia: i due medici della sala sembravano, così paciosi, il presidente del Rende l’uno e un simpatico zio Otto (incrociato con Fabio Mussi) l’altro, ma si trattava in realtà di due simpaticoni dalle metodologie indagative spicce, se è vero che ricordo proprio le due visite di quell’adorabile coppia come le più cruente. La gastroscopia consisteva infatti nel ficcarmi, a mò di un famigerato cucchiaio del dottor Misuri (il mio vecchio pediatra, deceduto qualche giorno prima del mio ricovero), un cannello-sonda fin sotto la gola: benché i due mi avessero ben raccomandato di reprimere i conati di vomito che inevitabilmente avrei avvertito durante l’operazione, non ci riuscii e colorai il lettino operatorio con i resti di cernia che avevo mangiato a pranzo: ma lo stomaco fu trovato a posto.
Quando arrivai alla stanza già fissata per il mio soggiorno di degenza, nella sezione di chirurgia denominata “Docimo”, stanza occupata da circa venti giorni da un vecchio salumiere di Spezzano Piccolo con il figlio, già sapevo che sotto, in Pronto Soccorso, era stato comandato che dovessi fare due sacche di trasfusione e che da un giorno all’altro sarei stato trasferito al reparto di gastroenterologia, dov’era già stata stabilita la mia sistemazione permanente. Tutta quella notte passò quindi tra regolari prelievi e cambi di flaconi di flebo e borse di sangue, a cura di un infermiere solerte quanto incurante del riposo di un giovane malato: ma era questa, la solerzia disumana, una caratteristica che avrei imparato a conoscere presto negli infermieri.
La mattina di venerdì vidi per la prima volta il dispiegarsi di un’equipe di medici attorno al capezzale del paziente e far da corona al primario, roba da storie del dottor Tersilli: era questi il dottor Torraca, che non perse tempo a rispedirmi al reparto dov’ero stato predestinato dopo una visita sommaria,adducendo di presentire un sospetto di ulcera. L’altra ipotesi che fu formulata all’interno del suo gruppo fu quella del dott. Arrasi, che pensò ad una connessione tra il mio problema di sanguinamento e i vari capillari che costellano il mio torace anche a livello epidermico. Prima di cambiare alloggio di degenza ebbi modo di conoscere il frate della cappella ospedaliera.
A gastroenterologia mi era stata riservata una camerata popolata da cinque signori anziani della provincia di Cosenza: un po’ più tardi la giovane dottoressa che mi prese in consegna per il test nosologico preliminare si sarebbe scusata per l’inadeguatezza, in rapporto alla mia età, della sistemazione assegnatami. Ebbi subito la possibilità di apprezzare che il dott. Borghi,il delfino del primario di quel reparto, si prese particolarmente a cuore la mia odissea e soprattutto che agiva con la libertà di uno specialista privato, dal momento che il suo primario preferiva, alla visibilità autorevole di Torraca, l’irraggiungibilità di un essere aniconico. Borghi mi mise subito in lista per i colloqui di controllo con la sua assistente, che era una mia coetanea, una vecchia appassionata di storia che al momento di fare la scelta universitaria aveva però venduto le sue velleità al prezzo di una prospettiva di impiego più certo:la ragazza mi visitò non molto dopo il mio arrivo,e mi prescrisse un clistere per la mattina successiva. In quella stessa giornata consumai i miei ultimi pasti prima del lungo intervallo di digiuno che sarebbe scattato il dì seguente,a pranzo e a cena: e pagai il noleggio della televisione fino al lunedì successivo. Quel venerdì feci anche la mia prima flebo di ferro.
Ma il risveglio di sabato fu il momento più drammatico di tutta la mia permanenza in ospedale: svegliato di soprassalto alle sette (ma in ospedale non è una novità) da un’infermiera per l’abituale prelievo di sangue (me ne fecero tre al giorno fino a domenica) e per la consegna della provetta per l’esame coprometrico (papà, con scrupolosa improntitudine, ricordò anche che sarebbe stato bene fare l’esame delle urine, dal momento che all’altro reparto ne avevo lasciato immacolata la fialetta), da fare necessariamente prima delle otto e mezzo, l’orario del clistere. Andai al bagno debole e barcollante, già conscio di essere stato condannato ad un nuovo esborso ematico: e tuttavia forse quella versione “demo” del mio intestinale “imbarazzo” (se così vogliamo chiamarlo) non avrebbe avuto seguito se la signorina colpevole del mio risveglio (che tra l’altro non si degnò neppure di toccare le mie provette, delegando proprio a me la riposizione nell’apposita teca) mi avessero quasi sequestrato in bagno per iniettarmi tre clisteri in fila, uno dopo l’altro, che ebbero il potere di risvegliare in pochi minuti l’energia delle scariche di un’intera settimana: tornai in camera bianco come al momento del ricovero, ma stoicamente deciso a camminare per tentare in qualche modo di assorbire i rigurgiti dell’intestino: ma, nel tempo necessario per prendere le mie cose da bagno dall’armadietto, un’eruzione anale aveva già provocato una vistosa escrescenza sul dietro del pigiama, e saltellai in bagno senza più poter opporre resistenza agli scoppiettii sempre più continui che davano al mio fondoschiena la consistenza di una gobba. Arrivato in bagno, trovai che la mutanda era ormai diventata una pentola traboccante di un minestrone in eccesso di feci sugose e sangue, che inondarono i pantaloni e si sparsero sul suolo con un caratteristico retro-odore di legno bruciato: come già mi era capitato in quell’esecrabile martedì notte, la violenza della scarica esorbitò dal cerchio del water, e gocce di sangue sprizzarono sulle pareti: il sangue, ormai, lo si poteva calpestare (mi sporcai la suola di una delle pantofole) e toccare dappertutto, anche sul davanzale alto della finestra, dove, in assoluta mancanza di migliori soluzioni, avevo poggiato mutande pantaloni ancora suganti di sangue: ed un rigolo rosso scese giù per le mattonelle. La fortuna volle che in quel momento disperato si trovasse nell’atrio del bagno un signore dall’aspetto di un vecchio zio Sam, fragile come un mormone e paziente come un fachiro, che attendeva di entrare nel gabinetto dove mi ero impaludato per riprendersi una tanica, quella dove il medico gli aveva prescritto di urinare. Lo supplicai di chiamarmi un infermiere, che arrivò dopo pochi minuti: questi valutò la situazione senza batter ciglio e, alla seconda tornata, mi portò tutto quanto mi era necessario per il ricambio; e in più aggiunse tre lenzuola pulite, per dare una “pennellata” di bianco a quella vera e propria porcilaia intestinale. Tornai in camera più bianco che pria, portandomi dietro e addosso la puzza delle robe sporche che avevo messo in un’ecobusta,ma m’importava solo stendermi a letto, ed aspettare comodamente il culmine della mia agonia. Di lontano, poi, nel corridoio, sentii una donna delle pulizie che diceva alla compagna: “Vieni a vedere il bagno degli uomini, presto; è in condizioni…”, ma non finì la frase,c ome a intendere che vomitevole era forse l’unico aggettivo col bollino verde che si potesse applicare a quel nuovo stile “organic” che avevo imposto alla ritirata dove avevo messo piede. Nella stanza, quindi, le narici maliziose di un’infermiera cambia-lenzuola percepirono della puzza sulla mia schiena e dentro al mio armadio, e fu lei la stessa che,guardandomi come una cartolina panoramica, esclamò prima di andarsene: “troppo bianco quel guagliune!…”.
Informato degli sviluppi della vicenda dall’infermiere che mi aveva soccorso, Borghi si precipitò nella mia camera: messi da parte i dubbi confermò al giovanotto in camice per il primo la sua convinzione che la mia esperienza potesse essere classificata come un caso di diverticolo di Meckel. Si tratta di un residuo fisiologico dell’organismo dell’infanzia, non presente in tutti gli individui,che quando si trova ad aver a che fare con situazioni dovute ad una maturazione interna dell’organismo, com’è proprio dei ventenni,che sono in un’età in cui si suppone che lo sviluppo fisiologico sia ormai completato, manifesta il suo malessere pompando sangue ai danni dell’intestino, e ributtandolo nelle feci; diversamente può manifestarsi già da bambini, più o meno nelle stesse forme, quando, per converso, la maturazione fisiologica è ancora in fase aurorale. Dunque il diverticolo, per chi ha la ventura di esservi nato,si lega a due momenti critici della vita biologica dell’individuo, la prima infanzia e il periodo più immediatamente post-adolescenziale, quello in cui si stabilizzano drammaticamente i risultati dello sviluppo. Il dottore ordinò che mi venissero urgentemente praticate altre due trasfusioni di sangue; e che venissi quindi sottoposto senza colpo ferire a delle visite di scintigrafia e colonscopia, in vista di un’imminente operazione: ma prima che mi si rivolgesse direttamente, ebbi modo di scoprire,dal colloquio con un altro paziente della mia stanza, che Borghi è un appassionato di carpologia (conosce tutte le varietà di arance) e che ha ereditato dal padre la passione per i cavalli. Dalla camerata alla sala di scintigrafia e da questa a quella di colonscopia fui portato in barella, quasi per un mio maggiore imbarazzo personale,dall’infermiere con cui quella stessa mattina la signora cambia-lenzuola aveva condiviso le sue impressioni di puzza, e dal Bruno Lauzi (data la somiglianza del viso) a cui la sciaurata mi aveva indicato come mostro di bianchezza. Fu la visita di colonscopia,dove ritrovai il presidente Chiappetta e lo zio Otto-Fabio Mussi, più che quella di scintigrafia, dove interminabili minuti di fermo tra un rullo di distensione e una lampada fotografica servirono a scoprire che cuore, reni, stomaco, fegato, intestino e milza stavano bene,eccettuata una formazione sospetta tra l’aorta e l’uretere,a sentenziare, presente Borghi, che avevo proprio un diverticolo descritto dal dottore accompagnato da una risacca di sangue all’inguine. Lo scandaglio indelicato in cui si scorgeva la mano del buon vecchio zio Otto mi fece passare da sensazioni di termo-rigonfiamento della regione della vescica (che fortunatamente avevo già svuotato grazie al buon cuore di un rubicondo dottore della sala di scintigrafia che mi aveva accompagnato per mano al bagno) ad altre di dolore lancinante nelle parti laterali dell’addome: al termine della cruenta indagine mi aspettavo che la più sanguinolenta scarica diarroica della mia triste storia recente fuoriuscisse dal mio ano, ma inaspettatamente non successe niente, segno che forse il clistere aveva fatto effetto. Ai miei che mi aspettavano con ansia nel corridoio della camerata dall’alto della barella potei dire con soddisfazione che la causa era scoperta, che era il diverticolo di Meckel: poi passai subito ad inflebarmi di sangue e di un altro flacone di ferro.
Borghi aveva senza dubbio predisposto tutto per far sì che la mia operazione si celebrasse quella sera stessa: ma il chirurgo convocato per effettuarlo, il dottor Marafiori, si mostrò da subito scettico sulla possibilità di individuare immediatamente la zona incriminata in mezzo al sangue residuo che presumibilmente avrebbe trovato nella mia regione intestinale, e decise perciò di farmi sottoporre alla mia terza visita in un giorno,quella di angiografia, forse la più simile ad un intervento operatorio vero e proprio, come le mattonelle azzurre delle pareti introduttive della sala parevano preludere: gran cerimoniere della mia indagine fu il dottor Guazzini, uno scienziato formatosi in Valtellina, entusiasta del suo lavoro, in un modo molto simile a quello del professore che in Independence Day andava in sollucchero al pensiero di poter studiare da vicino gli alieni invasori; a modo suo anche tenebrosamente simpatico,con quel suo spiccato compiacimento nell’usare accenti terribilistici(“Il paziente può rifiutare o meno di passare quest’esame: ma l’ultima signora che ha rifiutato è morta tre mesi dopo!”). Per la prima volta una sonda penetrava nel mio corpo attraverso un’incisione praticata nell’arteria principale della zona pelvica collegata alla gamba destra: ma, dopo una serie di vampate indagative di calore che arrivarono ad avvolgere tutta la zona vescicale (che nel frattempo si era nuovamente riempita, come lo stesso Guazzini mi fece notare), e la soddisfazione di aver visto per la prima volta dal vivo il mio cuore, l’analisi non rilevò alcun vaso sanguigno sospetto: e, forte di questi risultati negativi, Marafiori, irrotto nella sala di andrologia, decise di rinunciare del tutto all’operazione. Nell’immediato mi si prospettava un periodo non esaltante di digiuno e, anche peggio, la minaccia di un periodo di trattenimento in ospedale ancora lungo, da “scontare” nella stessa stanza di chirurgia che mi aveva ospitato la prima notte, dove lo stesso Marafiori aveva disposto di ritrasferirmi, promettendomi un monitoraggio continuo e accurato, nell’attesa che, nel corso dei giorni, si potessero verificare quelle condizioni che egli auspicava per l’intervento.

III.

La domenica, di fronte al signor Amento, il mio nuovo dirimpettaio, un gran parlatore ex camionista, ora ritiratosi a fare il contadino in una campagna vicino Montalto, chiamata Sant’Antonello, scoprii le torture del digiuno rese ancora più pesanti dalle sirene dei cibi nominati dalle infermiere-vivandiere nelle ore dei pasti (soprattutto della colazione, con quelle due opzioni che in quel momento mi sembravano così paradisiache: tè o latte ed orzo, l’eco delle quali mi tallonava da gastroenterologia; da laggiù mi portavo dietro anche l’immagine acustica dei menu personalizzati che una giovane infermiera-nutrizionista proponeva agli ospiti della stanza in via di normalizzazione, passando di letto in letto. Tra i fantasmi della mia agonia cosciente sentivo nominare,tra le altre pietanze, “sartò di riso”, “fettina di pollo” e “prosciutto e formaggio”). E il mio immaginario si riempiva di succhi di frutta in tetrapak, di snack e dessert freddi, di croissant, di caffellatte da bar, ma anche e soprattutto di acqua, che mi veniva negata parimenti a tutto il resto. L’unica cosa che non mi era negata erano i continui prelievi e il disturbo di reggere con le vene le mie sole fonti di nutrizione. L’iniezione di una penicillina, quella sera, per abbassare la febbre nel frattempo sopraggiunta, fu il punto-limite che fece debordare la mia trattenuta crisi di nervi. Eppure in mezzo a quella miseria ebbi l’opportunità di mettermi in testa l’idea che potessi adempiere proprio in ospedale, da malato e quindi senza bisogno di una preparazione coscienziale costruita, ad un dovere a cui da troppo tempo mancavo:la confessione.I l frate della cappella ospedaliera si presentò nuovamente ai miei occhi accompagnato dall’assistente con ostia e calice consacrati, proponendomi confessione e successiva comunione. Preso alla sprovvista, lì per lì dissi di no, ma la disponibilità del religioso mi colpì così tanto che mi decisi che nel corso della settimana avrei irrinunciabilmente avuto un appuntamento confessionale con lui.
L’unico che poteva convincere Marafiori ad operare subito era senza dubbio Torraca, che, con un’entrata risolutiva delle sue come quella del venerdì precedente,stabilì in quattro e quattr’otto che nel pomeriggio mi si dovesse fare una laparoscopia per accertare la presenza o meno di quel famoso diverticolo, e, se ci fosse stato realmente, di estrarlo senza perdere altro tempo: a me disse che aveva visto già altri casi come il mio, e che chiamassi a casa per sondare la disponibilità dei miei circa un’eventuale donazione di sangue in mio favore. Non ce ne fu comunque bisogno: quando i miei arrivarono, Torraca disse loro che in realtà la riserva ematica necessaria per l’intervento era già pronta, e che la richiesta era stata fatta a puro titolo informativo; pare che in quell’occasione il primario mi abbia largito dei miei complimenti,lodando il mio sereno stoicismo nei confronti del dolore. Ma in quel momento ero lontano dalla mia stanza,a fare le radiografie al torace, accompagnato con una sedia a rotelle come quando dovetti trasferirmi la prima volta da chirurgia a gastroenterologia (fu in quel frangente che,attraversando il corridoio dell’ufficio del primario, il dottore mi si fece incontro e mi carezzò la testa; un gesto di comparabile dolcezza ricordo di averlo ricevuto anche da Borghi, entrato nello studio della giovane dottoressa del suo reparto). Subii quindi un secondo elettrocardiogramma,ad opera di un dottore paffuto, Fiorigi, che avevo già notato nella prima visita dell’equipe di Torraca al mio capezzale. Il tragitto dalla stanza di degenza alla sala radiografie e viceversa diede forse il colpo di grazia alla febbre già latente nei giorni precedenti; ma io continuo a credere che lo zenith del mio stato febbrile lo raggiunsi la notte del venerdì, quando patii l’insonnia tragicamente crogiolandomi tra la sensazione di vomitare il pranzo e la cena che avevo consumato quel giorno con poco appetito,e la percezione di nuovi rimestamenti intestinali, che tempestosi mi promettevano nuove scariche per il dì avvenire. Ma in quelle ore ogni timore fisico naturalmente convergeva nell’emozione dell’imminente intervento, che ebbe luogo implacabilmente poco prima delle tre pomeridiane dopo un’anticamera in cui mi fu fatto l’ennesimo prelievo e l’anestesista mi richiese le generalità. Fu un’anticamera in tutti i sensi, dal momento che avvenne nella stanza antistante alla sala operatoria, di cui però non ebbi il tempo di vedere i particolari perché dopo qualche istante dal mio ingresso l’anestesista, con una sorta di lampada incantatrice, iniettò nelle mie labbra un vapore che mi fece precipitare nel sonno più completo. E pensare che mi aspettavo la classica puntura. Comunque, prima di perdere i sensi feci in tempo a rendermi conto che c’era anche lo scettico Marafiori nell’equipe dell’intervento, con tanto di regolamentare tenuta verde come il resto degli operanti. Ebbi anche il modo di scambiare quattro chiacchiere con un giovane chirurgo a proposito del tasso-limite di emoglobina che è possibile riscontrare all’interno di un essere umano: mi informò che per l’uomo è attestato su una quota variabile da 12 a 15, e che oltre questa quantità è quasi certo di rilevare nel sangue tracce di sostanze dopanti. Nell’anti-sala operatoria notai anche una di quelle tendine richiudibili che servono a delimitare l’area di intervento dal resto della stanza. Riuscii anche a recepire un’osservazione dell’anestesista,che è forse la chiave di tutta la mia situazione oculistica: “Noto che lei ha una pupilla più grande dell’altra”. Alla fine, a quel che mi dicono,sarebbe stato proprio Marafiori a togliere il diverticolo. Al mio risveglio mi trovai con un forte quanto improvviso mal di gola, e sulle prime pensai che si trattasse del tratto gutturale della sonda tubulare che partiva dal naso per arrivare allo stomaco, collegata ad un’altra fatta entrare direttamente da una delle due aperture della laparoscopia (era la stessa con cui nei giorni precedenti si era dovuto destreggiare il signor Amento): entrambe mi erano state inserite subito dopo l’intervento, l ’una per congregare i liquidi del siero, l’altra, quella che effettivamente mi dava fastidio, per aspirare i materiali residui dello stomaco e normalizzare i succhi gastrici. In effetti la causa del mio mal di gola era proprio quella, l’avevo azzeccata e i medici me ne diedero poi conferma, ma solo qualche giorno dopo: nelle ore restanti di quella giornata campale tastavo con la lingua la volta gutturale e non trovavo tracce di plastica, sicché mi convincevo che mi stavo trovando a lottare con una forma di influenza parallela alle mie vicissitudini cliniche. Con questo pensiero oscuro mi coricai, senza prender sonno, aspettando gli sviluppi del martedì.
All’alba dovetti presto rassegnarmi all’idea che mi aspettavano tempi di immobilismo full immersion, se è vero che una parte del corpo appena aperta e richiusa esige la sua massima inattività per almeno cinque-quattro giorni dall’intervento; ma non riuscivo a rammaricarmi per altro che per la circostanza di essere appena reduce da un periodo di semi-paralisi a cui ero stato costretto dall’imbracatura che mi era stata praticata ad andrografia (tra l’altro,una delle fasce adesive secondarie era arrivata a coprire integralmente i nei che ho in corrispondenza del fianco destro del torace, e fremevo all’idea che un qualche infermiere dai modi elefantiaci potesse staccarmeli con tutta la fascia;a trovarsi in tale incombenza fu però proprio Torraca in persona,nel corso della visita decisiva del lunedì; al mio sussulto “attenzione ai nei!” trovai che aveva già strappato in totale nonchalance, ma fortunatamente il neo più interno aveva retto all’attrito adesivo rimbalzando con l’elasticità di una Morositas). Il mal di gola aumentava, mentre le misurazioni della febbre, che da domenica si erano fatte regolari, davano un esito stazionario sul medio – alto. Tranquillante fu, in questo contesto clinico, l’intervento sul tardi del dottor Minuti,il Paolo Triestino delle corsie bruzie (scoprii poi che lo stesso attore Triestino aveva origini calabresi), che disse che era normale che la febbre si mantenesse alta come verifica del contraccolpo fisiologico di un intervento. Ma in quella stessa giornata ebbi anche la soddisfazione di ricevere la visita del dottor De Macceis, sulle quattro del pomeriggio, che si compiacque con sé stesso per la giustezza della sua tesi del diverticolo rotto (la mattina dello stesso giorno in cui mi ricoverai mi ero fatto visitare da lui, che azzardò la possibilità che potesse trattarsi proprio di un episodio del genere), e del frate confessore, che varcò la soglia della mia stanza verso le cinque dopo che alle tre avevo fatto richiesta all’infermiere che lo contattasse per me. Il frate tornò a trovarmi anche il dì successivo, dandomi la speranza che la mia clino-prigionia sarebbe finita se soltanto mi fosse stato cacciato,presto come lui auspicava, la sonda internasale; intanto nella notte tra martedì e mercoledì mi venne anche diminuito il numero delle flebo, che per la gran parte della notte non mi vennero più collegate, così come per le ore seguenti alle due del giorno successivo. Intanto anche il numero dei prelievi era sceso da tre a due già da lunedì.

IV.

Mercoledì per la prima volta un altro medico dell’equipe di Torraca, anch’egli presente in sala operatoria, mise chiaramente in collegamento i miei mal di gola e raffreddore (la notte tra martedì e mercoledì avevo espettorato abbondantemente, senza che per questo l’intensità del dolore gutturale diminuisse) con la presenza della sonda internasale attraverso le mie vie respiratorio-digestive. Ma il neo che aveva retto alla furia sillana di Torraca cedette alla freddezza paternalistica del dott. Minuti, che staccò di potenza la fascia laterale a quella che chiudeva l’incisione chirurgica, quella in cui cioè andava a ricadere la zona anatomica dei miei due compagni di vita, proprio nel momento in cui mi annunciava che il mio emocromo era ormai ampiamente stabilizzato: potei solo fargli osservare che quel cratere sanguinolento che egli aveva avuto il potere di creare col suo strappo una volta era un neo, ed egli mi rispose, con ottimismo impune, che c’era ancora, sì, ridotto a quel misero cratere. Nel pomeriggio di quel giorno arrivò un nuovo ospite nella mia stanza, un ragazzo alto, dalla carnagione mora, accompagnato dai suoi genitori. Pochi minuti dopo l’ultima misurazione termica giornaliera mi dà la conferma di aver raggiunto il culmine assoluto della mia “febbrilità” durante il soggiorno ospedaliero:38°,6. Il mio nuovo compagno di stanza,ammalato di appendicite, si lamentò per buona parte del tempo anche dopo l’operazione, finché non gli fu dato un calmante. La notte seguente constatai piacevolmente che la mia frequenza di espettoramento era migliorata, preludio di un abbassamento significativo di temperatura la mattina di giovedì 16:37°,2. Mi rodeva però pensare che il mio compagno di dolori, ricoverato solo il giorno precedente con una febbre sfiorante i 40°, quella mattina stesse anche meglio di me, con due linee di febbre in meno. Ma il pomeriggio pareggiammo,raggiungendomi egli alla mia gradazione, che anche nella misurazione serale era risultata la medesima. Anche la pressione(10,8) e l’emocromo(9,1) erano migliorati; il dottor Torraca decise allora di farmi fare un clistere, il cui esito fu assolutamente incoraggiante: non vi riconobbi, infatti, tracce di sangue di una qualche evidenza. Ma il dott. Minuti con un altro strappo brusco, durante una nuova operazione di disinfezione delle ferite dell’intervento, mi staccò anche il compagno del neo già eradicato. In quello stesso giorno i prelievi di sangue prescrittimi mi furono ulteriormente decurtati da due a uno, ed ebbi modo di mettere a fuoco per la prima volta la camminata del mio compagno di stanza all’entrata e all’uscita dal bagno come del tutto simile a quella di uno zombie. La notte seguente poi scoprii quante voci hanno le tenebre in corsia: cellulari irrisposti,guaiti di donne disperatamente inchiodate ai materassi, un battibecco burocratico-competenziale tra infermiere, che si scambiavano e si moltiplicavano nell’aere, sfumandosi e amplificandosi a rimbalzo.
La mattina di venerdì mi si ripropose ancora il dramma dell’invidia:il mio compagno, dopo aver bellamente sorseggiato un bicchiere d’acqua di plastica trasparente, fu addirittura lodato dal termometro con un bel 36°,6; io che seguitavo a rassegnarmi negli stenti del digiuno (era il settimo giorno di astinenza da sabato) mi trovai addirittura penalizzato di due linee in più. Nel frattempo anche il numero delle flebo continuava ad assottigliarsi: doppia somministrazione la mattina, doppia la sera, distanziate da un lungo intervallo di tempo pomeridiano e senza protrazioni notturne. Era ormai tale e tanta la mia pratica di flebo,che decisi di lasciare su un taccuino un breve cenno di flebologia:scrissi che li flebo si distinguono in flebo chiare (soluzioni acquose di sostanze leggere,che non modificano l’aspetto cristallino dell’acqua) e flebo scure (soluzioni acquose di sostanze pesanti,che interagiscono cromaticamente con l’acqua); data la pesantezza della loro composizione, le flebo scure sono anche quelle a goccia più lenta; cocktail è poi il nome di una flebo composta da una miscela di più sostanze. Venerdì mi fu tolta anche la sonda internasale, quella maledetta sonda internasale, per l’espulsione dei detriti organici dello stomaco e la fluidificazione dei succhi gastrici: e il mal di gola come per magia mi si rabbonì.
Quando anche il mio ultimo compagno di stanza se ne andò,mi ritrovai nuovamente a respirare la solitudine della mia avventura. Chi mi vuole male?Cosa ho fatto di sbagliato? Perché doveva capitarmi un periodo di impostazione così vitale come quella di volata alla tesi? Si può veramente diventare persone di successo dopo aver vissuto, anche a patto di averle superate,esperienze così debilitanti? E perché rinunciare ai miei sani piaceri alimentari di una parte così interessante di marzo per colpa di un guastatore dell’intestino spuntato da chissà dove? Verso la fine della giornata iniziò a insorgere in me un insopprimibile desiderio di grattarmi, dapprima nelle zone vicine alle ferite dell’intervento chirurgico,poi per tutto il corpo, segno che il corpo stesso si era risvegliato dall’ovatta dell’anestesia ed aveva ripreso la propria vitalità. Nel frattempo, poi, sin dal giorno della prima sostituzione delle sacche terminali dei tubi-sonda, cosa confermata anche quel venerdì con la rimozione del tubo della sacca gastrica, quasi soffrii di non sentire più quell’inestinguibile desiderio di bere che mi aveva accompagnato nella chiusura della scorsa settimana. La notte di sabato arrivò un nuovo ospite della stanza: un uomo brizzolato, baffuto, che conobbi meglio nel corso della mattinata. Ex impiegato dei Trasporti, il signor Del Mare, così si chiamava, padre di quattro figli e già nonno, era un appassionato di musica leggera e nel tempo libero mi rivelò di fare il fonico per diletto. Da me stesso invece scoprii che avevo a che fare con uomo dal temperamento allegro di raro vigore. Ricoverato a causa di dolori alla cistifellea, ai medici dichiarò di essersi sentito male “per due panini particolari”. All’alba, intanto, avevo vinto in temperatura segnando sul termometro 36°,2, ed ebbi la concessione dai quartieri alti di una scodella di tè;e mi fu fatta una sola flebo mattutina, anche se le dosi furono poi riequilibrate nel corso della serata, sicché al tramonto facevo già la seconda,e ne seguì anche una terza. Allora per la prima volta nel corso del rituale riordino dei letti, mi sembrò che la coperta marrone fra le due lenzuola bianche fosse come una fetta di carne tra due strati di formaggio fuso.
Verso le dieci il dott. Minuti ritenne di non dovermi togliere la sacca di siero, ma solo di sostituirla; e interpretò la causa del mio prurito come un’allergia estesa dovuta, probabilmente, al contatto con la pelle delle garze di protezione delle ferite. Dopo la quarta operazione di disinfezione, i miei nei erano ormai diventati come delle stelle scoppiate, ridotti a lingue di sangue lungo il loro vecchio fianco senza più nucleo. Il meridiano sopralluogo di Torraca decretò il mio diritto ad un brodino: finiva così definitivamente il mio periodo di digiuno durato una lunga settimana, troppo lunga settimana. Alle sedici e venti dalla bocca del dott. Fiorigi arrivò l’annuncio che mi aspettavo dal primario: sarei stato dimesso la mattina seguente, tutt’al più il pomeriggio, ma nessuno sconto sull’applicazione del tubo del siero al fianco senza nei, nessuna osservazione di respiro minutiano sulla reazione dell’epidermide ai medicinali e alle fasciature dell’intervento, nessun saluto di commiato: mi diede la gioia della libertà come un gigante di pietra.
A sera una nuova rivelazione ospedaliera: l’infermiere,quello che mi fece da custode sin dalla prima notte,mi confessò che impressione aveva avuto di me nel corso di quell’intensissimo tour de force antelucano: “A dir la verità mi avevi fatto paura”, alludendo certamente al mio pallore, “pensavo non ce la facessi”,ma lo aveva indotto la mia osservazione ironica a dir così, “a dirla tutta mi è venuto in mente che tu fossi un drogato!”. Un drogato! Ma allora quante persone che mi erano sembrate gentili e disponibili con me si comportavano in realtà in modo guardingo nei miei confronti, immaginando di me chissà cosa!
L’ultima notte fu turbata dal russare imperioso del signor Del Mare (una “pericolosità” di cui lo stesso mi aveva preventivamente avvertito). Al mattino ricevetti la comunione, come avevo desiderato, ma non dalle mani del frate della cappella ospedaliera,secondo le mie aspettative, bensì da quelle di una sorta di strizzacervelli religiosa, una vera e propria infermiera grassoccia della fede,che imbastì esclusivamente per me una mini-messa col Confiteor ed estratti della lettura evangelica, citati a memoria, per la parte introduttiva, e il Padre Nostro contornato da qualche formula di accompagnamento quale corpo centrale; poi tirò fuori da un portapillole placcato l’ostia consacrata (quel piccolo contenitore, che tendeva a restringersi verso il fondo, poteva in realtà contenerne solo una) e mi rifece nuovamente partecipe di un rito a cui mancavo da ben troppo tempo. Prima del suo arrivo, mi avevano concesso di accompagnare al mio secondo tè mattutino un paio di fette biscottate, quindi feci la flebo mattutina monodose, come il giorno precedente. Alle dieci e quarantacinque,la vera vittoria: feci di colore normale, non indotte da clisteri, come fossi un parente di un paziente dell’ospedale ritiratosi un momento in bagno. Un po’ dopo venne il dottor Fiorigi con due assistenti per recidere gli ultimi ceppi della mia prigionia e cambiare nuovamente le fasciature. Mi sentivo un pugno nello stomaco già da dopo la colazione (segno che lo stomaco era ormai disabituato alle “emozioni” della nutrizione), e l’intervento degli uomini di Fiorigi peggiorò la situazione; Scorsano addirittura, sempre lui, il custode della prima notte, sembrò provarci gusto a contrarre lo strappo dei cerotti della fascia sopra la zona ex-nei, quasi a produrre l’effetto di un pizzicotto ustionante. Il medico mi confermò poi la decisione di dimettermi entro quel pomeriggio: e dunque me ne sarei andato così, senza mettere il palmo in quello di Marafiori e Torraca, praticamente la storia del mio ricovero,quasi clandestinamente,negato del diritto di ripassare in rassegna il senso profondo della mia esperienza. Ma forse il senso in fondo a tutta questa vicenda ospedaliera,dopo due nei persi, gomiti e polsi crivellati senza risparmio,un addome forato da due parti, e una regione ombelicale penetrata come in uno scavo, è che posso dire nella sostanza di aver preso coscienza di avere operato, meditato, concepito per un arco non lungo ma significativo di giorni con una pressione sanguigna tendente al basso e un emocromo non superiore a 10: dunque per un po’ di tempo si erano verificate in me quelle condizioni di complessione e temperatura corporea degne dell’autentico “intellettuale pallido”, e questo aspetto, ad una lettura posteriore, mi dà l’ardire di scorgere del buono anche in mezzo ad attimi dove l’eclissi della personalità pensante era pressoché totale. E, la cosa probabilmente davvero fondamentale, con la recisione (o l’estrazione, che dir si voglia) del diverticolo di Meckel ho tagliato l’ultimo residuo legame con l’infanzia.


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